Occhi che cercano occhi

Fin dalle origini i vari Homo ebbero l’esigenza innata di comunicare ai propri simili le loro emozioni e i loro rudimentali pensieri; quindi emettevano suoni poco articolati accompagnati da gesti, ma già si differenziavano dagli ominidi per la capacità di costruire utensili. Nel susseguirsi dei millenni, il loro cervello si evolveva e i concetti si affinavano, cosicché ebbero pure l’esigenza di comunicarli. Probabilmente per affrontare un qualche cambiamento improvviso, ci riuscì in modo repentino il Sapiens prima di centomila anni fa, sfruttando meglio l’apparato fonatorio di cui era già dotato, dato che la comunicazione è importante per pianificare strategie e difese. Il Sapiens, cioè noi, cominciò così ad acquisire un linguaggio sempre più articolato e più ricco di termini per potere esprimere il pensiero. Il linguaggio verbale aggiunto a quello del corpo colorò la comunicazione di infinite connotazioni espressive prettamente umane. In tutto ciò il contributo più importante lo danno la profondità degli occhi e la mimica facciale attraverso i trentasei muscoli del viso.

Con questa premessa antropologica intendo sottolineare che in questi tempi di grave pandemia e di restrizioni varie, abbiamo dovuto sospendere pure la parte più importante del nostro linguaggio non verbale, quella che colora di emozioni la comunicazione: il viso, appunto. Le mascherine, intendiamoci, sono importantissime e dobbiamo continuare a portarle ancora per parecchio tempo se non vogliamo vanificare tre mesi di grandi sacrifici, ma hanno celato i visi. Ora siamo costretti a usare con più intensità gli occhi per riconoscere e scrutare fuori e dentro le persone. Li scrutiamo per differenziarci dagli automi; è una sete di umanità che ci spinge a cercare negli occhi altrui la nostra stessa umanità.

E’ triste vedere quelle strade insolitamente sgombre, specie di pomeriggio e la sera, quei parcheggi in sovrabbondanza e quelle saracinesche chiuse, o quei due o tre pedoni sparsi qua e là che indossano guanti e mascherine. Sono ormai scenari spettrali che accomunano tutte o quasi le città e i paesi del globo. Da circa tre mesi queste immagini desolate e per la maggioranza di noi del tutto inedite che vediamo di presenza o in tv ogni giorno, sono diventate la nuova “normalità negativa” che ha scalzato l’altra, quella di prima, quella meno negativa che durava da decenni, esattamente dal dopoguerra in poi. In questi settantacinque anni trascorsi da allora, ci sono state tante crisi. Rischi costanti di conflitti nucleari negli anni della guerra fredda, fra l’altro una davvero scampata per un niente nel 1962 durante la crisi dei missili di Cuba. Crisi derivanti dalle guerre effettivamente combattute con armi convenzionali che provocano ancora, e hanno provocato centinaia di migliaia di vittime come nella fine del XX secolo, e un susseguirsi di crisi economiche, di ingiustizie e divari sociali e tanto altro ancora. Mai però molti di noi avevamo visto e sentito dal vivo tanto dolore e tanta desolazione in giro! All’improvviso invece, come mille fulmini arrivati contemporaneamente a ciel sereno, oggi guardiamo sgomenti le sfilate solitarie dei camion militari che trasportano le bare verso gli impianti di cremazione, giacché i cimiteri non possono contenerle tutte. In televisione vediamo gli escavatori che realizzano mestissime fosse comuni negli USA, in Brasile e in altri Paesi; guardiamo impotenti i letti dei contagiati negli ospedali stracolmi con i medici e gli infermieri che coraggiosamente e umanamente vi gravitano intorno, di cui già centocinquanta hanno perso la vita nel compiere con dedizione il loro dovere; vediamo le residenze sanitarie assistenziali o RSA dove vi sono morti migliaia di anziani. E poi osserviamo preoccupati la marea improvvisa di disoccupati e la nuova povertà che si aggiunge a quella già esistente; ai tre milioni e mezzo di contagiati e duecentocinquantamila morti nel mondo finora; e poi tanta, tanta paura di un nemico tanto invisibile quanto subdolo e invadente, che ha cambiato radicalmente le nostre vite e le nostre abitudini. A parte le macerie tipiche della guerra, la desolazione di oggi è molto simile ad essa che per fortuna gran parte di noi non ha mai vissuto sulla propria pelle. Oggi solo qualche nonno che durante il secondo conflitto mondiale era abbastanza grandicello può ricordarne gli orrori e le macerie fisiche e morali.

Da quando questo nemico invisibile ha attaccato e invaso proditoriamente la nostra Terra come una forza nemica aliena, altri vocaboli, alcuni mai sentiti prima, si sono sostituiti a quei termini un tempo inflazionati in televisione e sui giornali come immigrazione, terrorismo internazionale, mafia, ecc., come se fossero scomparsi o ne sia addirittura scomparso il loro stesso significato. Come accadde per i nostri anni di piombo e la strategia della tensione dopo che furono sconfitti. Anche se la memoria è un esercizio importante, gli eventi particolarmente dolorosi una volta cessati da tempo, per una sorta di protezione psicologica tentiamo di svuotarli del loro contenuto emotivo a vantaggio di quello razionale, facendocene appunto una ragione. Come avviene dopo un grave lutto ad esempio. Come speriamo che avvenisse presto la stessa cosa contro questa terribile epidemia. Svuotarla prima possibile del suo contenuto emotivo doloroso! Non proprio una rimozione, ma una lenta elaborazione. I termini citati sopra sono stati messi in “quarantena” da vocaboli o frasi, entrati a far parte del nostro lessico comune, quali: paziente zero, indice R0, o Erre con zero (misura della contagiosità di una persona infetta), coronavirus, covid-19, pandemia, quarantena, #iorestoacasa, lockdown (per gli anglofili; isolamento per gli italofili e italofoni), misure di contenimento o restrizioni e allentamenti, ventilatore per rianimazione, tampone, distanziamento sociale, mascherine, guanti, smart working (lavoro agile ancora per gli italofili e italofoni), asintomatici, assembramento, autocertificazione, balcone, sanificazione, fase 1 e fase 2 e altri ancora. Oggi, in questo periodo cosiddetto anche fin troppo frequentemente “ai tempi del coronavirus” (locuzione chiaramente parafrasata dal titolo di un noto romanzo del premio Nobel G. G. Marquez), l’intero spazio dei mass-media se l’è incettato il COVID-19 o SARS-CoV-2 (la patologia o sindrome) e coronavirus2, il virus stesso così chiamato insieme agli altri sei cugini per la loro forma sferica.

In questa parziale riapertura, le cosiddette attese fasi 2 (attuale), 3 e 4 della durata di quattordici giorni ciascuna, per non perdere di efficacia e soprattutto per non doverle sospendere a causa di una malaugurata impennata dei contagi, deve richiedere da parte di noi italiani una prova di grande responsabilità e maturità. Oltre a rispettare le prescrizioni dei vari DPCM, che in assenza di precedenti simili alla pandemia odierna e quindi di una mancanza di esperienza consolidata nel tempo, a volte sono vaghi e suscettibili di varie interpretazioni, dobbiamo rinforzarli col nostro buon senso e con “la legge morale che è dentro di noi”, parafrasando l’epitaffio di Immanuel Kant, tratto dalla conclusione della sua “Critica de la ragion pura”.