Nemici invisibili. La battaglia quotidiana del colonnello Carlo Calcagni

Ed oggi sono nuovamente allo specchio, ad affrontare un nuovo nemico, anch’esso, ora come allora, invisibile: COVID-19. 

Fredde lettere in piedi una accanto all’altra, che compongono una sigla non molto diversa da quelle che conosco così bene: Zn, Cu, Mn, U, Cs, As, Sr, Ti, Fe, Cr, Hg, W, etc. Simboli apparentemente insignificanti, eppure codici potenti ed inarrestabili di distruzione. 

Quasi ci ridevo alle prime informazioni giornalistiche, quando sembrava ancora tanto lontano da noi, dalla protezione della mia casa e dei miei affetti, quando pensavo, sorridendo, che non avrei dovuto aver timore di nessun altro avversario oltre quelli che combatto ogni giorno. Ma forse il mio era soltanto un tentativo di esorcizzare una nuova e ancor più ignota paura. Me ne sono accorto presto, quando pian piano dentro di me il COVID-19 ha assunto la forma, invisibile e strisciante, della necessità di prendere le distanze dal mondo, persino dai miei figli.

“Polmonite interstiziale bilaterale”: in questo modo si inizia a dare un nome a ciò che il virus porta con sé. Come non pensare immediatamente ai miei di polmoni, che da anni sopportano il carico di miliardi di piccolissime particelle di veleno? Il mio saturimetro misura ormai da troppo tempo valori di ossigenazione che oggi condurrebbero chiunque in urgenza ad una ventilazione assistita, i miei polmoni hanno già subito un intervento di asportazione di noduli, le mie notti trascorrono già appese ad una macchina per respirare. Come posso impedire alla mia mente di riconoscermi in tutti quegli uomini e quelle donne che in questi giorni vengono ricoverati in situazioni di emergenza e che, purtroppo, perdono la vita?

Questo nuovo nemico non fa altro che amplificare le mie vecchie fragilità: mi scopro oggi ancora più vulnerabile e tutto ciò mi fa paura e rabbia. Sono uno spirito libero e testardo, eppure ho dovuto imparare a rinunciare a tanto, a troppo. Oggi decido di aumentare, e spero per un tempo non troppo lungo, l’elenco delle mie rinunce. Me lo devo, lo devo ai miei figli e a chi mi vuole bene, lo devo a ciò che posso e voglio ancora donare agli altri. 

E allora la mia casa diventa il mio rifugio e al tempo stesso la mia prigione: da fine febbraio ho dovuto chiudere il cancello di ferro che mi distanzia dal mondo. Ogni mio incontro con amici e conoscenti è stato sostituito da contatti virtuali, persino i miei figli sono stato costretto a tenere lontani da me. Ogni abbraccio, ogni stretta di mano, qualsiasi persona affianco, anche quella più amata, potrebbe diventare un pericolo mortale. Così, amaramente, solo il telefono mi tiene legato agli affetti, una fredda e anch’essa invisibile connessione wi-fi mi consente di ascoltare le voci di Andrea e Francesca e vederne i sorrisi. Persino Franco, il mio infermiere, amico da sempre ed angelo custode, ha dovuto rinunciare a prepararmi quotidianamente le terapie in flebo: ho imparato a farlo da solo, anche quando le operazioni richiedono tempo e coraggio di trovare a fatica una vena libera o una parete accessibile del catetere venoso centrale. E così gran parte della giornata trascorre in alambicchi e tentativi di auto-somministrarmi farmaci ed ozono, mediante procedure che richiederebbero guida e sostegno specialistici. 

Tenerti a distanza caro invisibile nemico numero 2 non è facile per niente, ma è ora più che mai doveroso! Pensa se tu incontrassi il nemico numero 1, che squadra di morte! Entrambi invisibili, ma entrambi insidiosi e letali! 

Non oso immaginare quale potere devastante potreste avere, insieme, sul mio respiro e sul battere del mio cuore, sicuramente capaci di potenziarvi l’un l’altro! 

Anche i medici, che mi seguono, mi impediscono di sottopormi alle cure ospedaliere periodiche, mi è categoricamente vietato l’accesso al reparto di nefrologia dell’ospedale Perrino di Brindisi per la necessaria plasmaferesi. Eppure, come spesso accade, un giorno inizio ad avvertire dei segnali dal mio corpo, quelli che ormai conosco meglio di un dottore, perché li sento nelle ossa, in ogni muscolo, sopra e dentro la pelle, nella testa. Col passare delle ore mi convinco sempre di più che è arrivata l’ennesima setticemia, anche questa volta ci sono problemi con il catetere impiantato nella giugulare: la febbre è costante, il malessere persistente, anche le prestazioni in allenamento sembrano calare. L’emocoltura è positiva. Sento il mio amico medico anestesista che immediatamente mi dice: “Il catetere va rimosso!”

Ma ho la febbre!

A causa delle “restrizioni e procedure” imposte dall’emergenza COVID-19, arrivando in qualunque Pronto Soccorso con febbre alta e con i miei valori ordinari di saturazione, esageratamente inferiori alla norma, sarei immediatamente ricoverato in reparto di Malattie Infettive per poter escludere il COVID-19 ed essere adeguatamente trattato. 

“Ma io non posso permettermelo.” 

Quante volte ho rifiutato ricoveri ospedalieri in vita mia, scegliendo anche contro parere medico, di curarmi in casa, per evitare rischi di sovra-infezione e, al tempo stesso, per non abbandonare le mie cose, le mie terapie domiciliari e gli allenamenti quotidiani. Ancor meno ciò è possibile in questa occasione. 

Ottengo perciò, segnalata la situazione febbrile e le mie condizioni generali, di effettuare un tampone oro-faringeo a domicilio e, negativo, accetto di sottopormi ad intervento di rimozione del catetere infetto. La mia prima ed unica uscita da giorni e giorni avviene per recarmi in ospedale a Casarano; dopo poche ore sono già a casa, pronto a continuare le mie cure antibiotiche, “ospedaliere”, rigorosamente da solo, a casa mia.

Questa infinita solitudine fa male, entra in ogni piega dell’anima, specie la notte. 

(fine terza parte, la quarta ed ultima sarà on line mercoledì 5 agosto)