Si gioca a “volto” scoperto
La cultura coranica stabilisce l’utilizzo in pubblico del velo da parte delle donne, afferendo che questo sia però l’esercizio di una loro scelta libera e consapevole, riflesso di una cultura e tradizione profonda e determinante. È davvero così? Se la scelta è posta tra l’indossare un velo e l’essere lapidate per apostasia non c’è davvero molta libertà.
I cosiddetti “veli” avendo diversa foggia e caratteristiche viaggiano in uno spettro che nel radar occidentale va dall’accettabile, nel caso del più semplice capo coperto, al generalmente considerato inaccettabile come il burqa vero e proprio, diffuso per lo più in Afghanistan sotto controllo talebano. Il fulcro della questione in Europa riguarda l’uso del niqāb (velo che lascia scoperti solo gli occhi).
Domenica 7 marzo in Svizzera è stato approvato un referendum che vieta l’utilizzo di coperture totali per il viso in pubblico, che pur non essendo una legge direttamente rivolta contro le donne musulmane nei fatti lo è, non a caso è stata rinominata legge anti burqa.
La proposta di indire un referendum è stata presentata nel 2016 da un comitato di cui fanno parte diversi esponenti del partito SVP, partito conservatore di destra. In Svizzera quindi non ci si può più coprire il volto per una questione di sicurezza e riconoscibilità; il governo centrale per evitare la polemica che il referendum avrebbe scatenato con la comunità islamica, aveva proposto una legge che obbligasse le donne a mostrare il volto ad un poliziotto che lo chiedesse loro per un’identificazione senza vietare quindi il velo, proposta però non andata a buon fine.
In tanti hanno fatto notare come le intenzioni di SVP fossero altre: nel 2009, ad esempio, il partito aveva promosso un referendum che aveva vietato la costruzione di nuovi minareti cioè le torri adiacenti alle moschee da cui il muʾadhdhin diffonde cinque volte al giorno gli inviti alla preghiera.
La questione risulta essere differente e di natura culturale: quanto siamo disposti ad accettare nell’assimilazione di culture diverse nella nostra società che si va sempre più secolarizzando?
I partiti conservatori europei, in molti casi, non si muovono seguendo una tradizione di Stato laico quanto più di uno Stato dalle influenze cattoliche; di conseguenza non ci si dovrebbe aspettare istanze volte a laicizzare la popolazione da queste tradizioni.
La comunità islamica in Svizzera ha contestato subito il risultato elettorale affermando che questo nuovo orientamento non permetterebbe alle donne di professare liberamente la propria religione essendo questo indumento parte integrante del credo e della tradizione; ha parlato, inoltre, di discriminazione nei confronti della loro cultura. Diverse voci provenienti da alcuni ambienti femministi hanno parlato di sessismo in quanto impedendo alle donne di indossare il niqāb si sta esercitando un controllo sul loro corpo limitandone quindi l’autodeterminazione.
Le critiche vanno però contestualizzate: in gran parte del mondo musulmano le donne devono coprirsi, è una tradizione di derivazione coranica che viene dal concetto che la donna debba esibire modestia. Come ogni altro luogo del pianeta, però, anche queste società stanno attraversando una complessa laicizzazione che va di pari passo con le richieste di eguaglianza tra i sessi, pari diritti ed esclusione della religione dalla vita pubblica, che si sta realizzando con tempi e modalità diverse a seconda della cultura e del paese.
In contesti di tradizione occidentale è fuori questione che si possa imporre alla donna un dress code, nel resto del mondo invece dipende: nella maggior parte dei paesi musulmani è richiesto che venga coperto almeno il capo ed il collo, tuttavia la circostanza muta passando da situazioni estreme a molto blande; in Turchia ad esempio è un costume quasi in disuso, se non tra le persone conservatrici o molto anziane, come è facile vedere durante le manifestazioni studentesche.
Altre realtà sono invece meno permissive: in Egitto molte donne hanno cercato di emanciparsi dall’utilizzo del velo che viene però imposto da una serie di atteggiamenti sociali piuttosto che da vere e proprie leggi; nella vicina Libia è ben più difficile vedere donne con i capelli al vento; in paesi come Pakistan, Afghanistan e Emirati le regole diventano ben più stringenti quindi non si può non rispettare il dress code arrivando anche a richiedere la copertura del volto; infine abbiamo realtà come l’Arabia Saudita dove si deve indossare o lo chador o il niqāb ed in generale le donne sono tenute lontane dalla vita pubblica, in molti casi legate alla riprovevole figura di un guardiano.
La “modestia” femminile musulmana diventa un problema in occidente quando è chiamata ad integrarsi nella nostra società, appunto diversa e che faticosamente porta avanti un discorso di parità di genere e di laicità dello Stato, cioè l’inquadramento della religione come questione personale che si contrappone a quelle tradizioni in cui si può essere condannati a morte per apostasia, cioè aver abbandonato il proprio credo.
Queste libertà individuali possono essere limitate? Si potrebbe pensare di sì, poiché sono gli stessi limiti della democrazia che pur essendo il più tollerante dei sistemi deve necessariamente espellere e non tollerare gli elementi anti democratici al suo interno; il limite è impedire ad una manciata di donne (in Svizzera si è calcolato siano tra le 36 e le 130) di indossare quel particolare abito, non perché si voglia impedirne l’autodeterminazione ma poiché quell’abito è visto come il contrario dell’autodeterminazione stessa, cioè l’obbligo di coprirsi il volto per paura di ripercussioni legate alla propria cultura. A riprova di ciò nei paesi musulmani in cui quest’obbligo non c’è come Turchia ed Egitto, non di certo paesi particolarmente progressisti, le donne che girano a volto coperto sono pochissime e in genere provenienti da luoghi periferici o da famiglie molto conservatrici.
Quando si parla quindi di libera scelta delle donne nell’indossare questo indumento discriminante ci si sta spostando dalla parte sbagliata del paradosso della tolleranza. Il problema è camminare sul filo del rasoio nell’esprimere la propria opinione con un preciso ideale in mente, che sia il rispetto degli altri o la tutela di valori profondi, ben consci che un colpo di vento in un attimo possa farci finire nell’ambito della strumentalizzazione politica.
Ninì Romanazzi