Nel mare ci sono i coccodrilli, un libro per ragionare sull’Afghanistan d’oggi
- Editore: Baldini+Castoldi
- Collana: Romanzi e racconti
- Anno edizione: 2017
- Pagine: 160
- EAN: 97888893880107
Ci sono libri che aiutano molto di più delle astruserie di politologi e analisti a cercare di comprendere le dinamiche, a volte follemente oscure come il risultato di un’operazione algebrica sballata, nel mondo in cui, nonostante tutto, viviamo. Uno di questi è sicuramente “Nel mare ci sono i coccodrilli – Storia vera di Enaiatollah Akbari”, di Fabio Geda, edito da Baldini+Castoldi.

Vivere senza allegria: così risponde alla domanda di Paolo Coccorese, in un’intervista pubblicata alcuni giorni fa sul Corriere della Sera di Torino, Enaiatollah Akbari. «Esclusa la questione delle donne, cosa vuol dire vivere sotto i talebani?» chiede il giornalista; la risposta tremenda nella sua semplicità: «Vivere senza allegria. La loro è una società basata su una finta serietà. Non c’è musica, non c’è dibattito. Bisogna essere buoni musulmani con la barba lunga. Il gioco è proibito, bisogna solo pregare. Per una maglietta che lascia scoperto un pezzo di braccio, si ricevono frustate».
Il libro narra le vicissitudini di Enaiatollah Akbari, nato per destino in Afghanistan, “nel posto sbagliato e nel momento sbagliato”, come recita la quarta di copertina. Fin da piccolo, per ragioni che a noi, sicuri nella nostra anestetizzante bambagia quotidiana turbata solo da futili quanto inesistenti conflitti, cospirazioni, trame e complotti occulti, risultano incomprensibili, qualcuno minacciava la sua esistenza e reclamava la sua vita, anche se ancora “un bambino alto come una capra, e uno dei migliori a giocare a Buzul-bazi”. Cosa era successo? Il padre era morto lavorando per un ricco signore e il carico del camion che guidava fu perso. Così il piccolo diventa il risarcimento. Un’infanzia passata a nascondersi ogni volta che bussavano alla porta nella buca scavata dalla mamma che diventa sempre più stretta con il passare del tempo, fino a non entrarci più. “Così, un giorno, lei ti dice che dovete fare un viaggio. Ti accompagna in Pakistan, ti accarezza i capelli, ti fa promettere che diventerai un uomo per bene e ti lascia solo. Da questo tragico atto di amore hanno inizio la prematura vita adulta di Enaiatollah Akbari e l’incredibile viaggio che lo porterà in Italia passando per l’Iran, la Turchia e la Grecia. Un’odissea che lo ha messo in contatto con la miseria e la nobiltà degli uomini, e che, nonostante tutto, non è riuscita a fargli perdere l’ironia né a cancellargli dal volto il suo formidabile sorriso”. Quella storia terminava nel 2008, quando Enaiat parla al telefono con la madre per la prima volta dopo il lungo e avventuroso viaggio che dall’Afghanistan l’ha condotto in Italia, a Torino.
La mano della mamma di Enaiat che lo accarezza teneramente, benedicendolo e raccomandandogli di diventare un brav’uomo, mentre lui si addormenta sicuro, per risvegliarsi poi solo e in balìa del suo destino, ricorda quelle delle mamme afghane che in questi giorni passano i propri figli ai soldati occidentali, al di là del filo spinato: un gesto disperato che nessuna persona al mondo dovrebbe mai fare.
Alla domanda posta dalla commissione di valutazione della richiesta dello status di rifugiato sul perché avrebbero dovuto accogliere la sua istanza, Enaiatollah Akbari, mostrando la pagina di un quotidiano in cui veniva riportata la notizia di un giovane attentatore suicida che, a Kabul, aveva fatto esplodere l’ordigno che portava con sé facendo una strage, rispose: “Perché ora avrei potuto essere come lui”.
Ciro Troiano