Squid Game o della lucida razionalità laica

La serie tv Squid Game, disponibile in streaming sulla piattaforma di Netflix, commentata positivamente con abbondanza di note sui mass-media e sui social, è composta, nella sua prima stagione, da nove episodi. Essa sta letteralmente soggiogando il pubblico mondiale con un successo di portata incomparabile con altri prodotti cinematografici e televisivi di tutti i tempi.

Il regista e sceneggiatore, Hwang Dong-hyuk, descrive, nella parte centrale, le fasi di molti giochi infantili  di diffusione planetaria e termina con le riprese di un gioco perverso, il gioco del calamaro (squid game) che è tipicamente coreano e non è conosciuto in Occidente, almeno con le modalità rappresentate. E’ un gioco che ha molto a che vedere con la morte, con la violenza, con la lotta spasmodica per la sopravvivenza; e poco, molto poco, con i sentimenti di infantile amicizia.

Secondo l’autore del serial a inventare un “palazzo dei giochi” a Seoul sono i “ricchi”, i prestatori a strozzo di denaro, i banchieri.

Essi, come esponenti di una società opulenta ma afflitta dal tedio (La vita è gioco di Alberto Moravia si muove sulla stessa linea di pensiero), utilizzano qual luogo, per passare il tempo e combattere la noia. Si tratta, un altre parole, di un semplice passatempo, di un diversivo (feroce, perché chi perde al gioco viene ucciso senza remore da guardie in uniforme fantascientifica) per distrarsi dalla mancanza dei  problemi quotidiani che rendono penosa la vita dei diseredati.

A noi occidentali, il serial dimostra che in ogni società capitalistica avanzata i meccanismi spietati del credito bancario sono i medesimi; ragion per cui Occidente ed Oriente sono sullo stesso piano inclinato verso il disastro. Anche se le banche non sono in mano di aggregazioni religiose che millantano propositi umanitari, la loro legge è  ugualmente implacabile. In altre parole, anche se la “cultura” di un Paese laico non  è fatta di quel coacervo indistinto di irrazionalismi religiosi e ideologici, tipico dell’Occidente degli assolutismi religiosi e filosofici, anche l’Oriente subisce, senza capirlo fino in fondo, l’effetto tragico di un capitalismo che è non meno spietato del nostro. D’altronde, anche l’esiziale processo di sovraffollamento umano riguarda tutto il pianeta ed è ben più preoccupante dei flebili “fil di fumo” di fabbriche che le Banche di tutto il mondo hanno deciso non di chiudere ma di delocalizzare in Paesi poveri (la cattiveria della gente aumenta man mano che il sovraffollamento del pianeta raggiunge livelli insopportabili di vicinanza).

 Anche la globalizzazione, infine, non risparmia l’Oriente: essa sta producendo lo stesso scompaginamento delle attuali famiglie senza arrecare, però, alcun danno all’istituzione che resta intatta come base dell’avidità proprietaria, pdrché elemento indefettibile dell’Uomo della società patriarcale.

L’autore del serial, usa atmosfere tragicamente fosche in alternanza con altre in cui la bellezza del paesaggio e gli interni del misterioso e avveniristico “palazzo dei giochi” (ricavato, come per la Spectre dei film di Jan Fleming  nelle visceri di un’isola) sono dominati da colori ora molto accesi ora tenui e  carezzevoli (come sono quelli delle stanze dei bambini o delle sale spaziose degli asili infantili).

Gli stimoli alla riflessione suscitati dalla “serie” si coniugano  con una grande perfezione formale, con un’eleganza scenografica  strepitosa e con un armonioso commento musicale ispirato, con sapienti variazioni, alla musica occidentale (soprattutto walzerviennesi e blues americani).

La trama del serial è semplice nella sua struttura portante ma molto complessa nella descrizione dello svolgimento dei vari giochi. Essa può riassumersi così:

Il protagonista, Seong Gi-hun (interpretato dall’attore Lee Jung-jae) è un uomo allo sbando, pieno di debiti che,  per aiutare la madre malata e riavere con sé la figlia Seong Ga-yeong, avuta con l’ex moglie divorziata (gli è stata tolta, dai giudici. la custodia) partecipa forsennatamente alle scommesse sulle corse dei cavalli senza riuscire, peraltro, a cavare mai un ragno dal buco.

Quando incontra, un giorno in metropolitana, un distinto signore in giacca e cravatta che gli dà un biglietto da visita per partecipare a un gioco con un ricchissimo monte-premi, ammontante ad un importo di 45,6 miliardi di won (corrispondenti all’incirca ad una cifra in euro pari a 33,4 milioni), Gi-hun decide di parteciparvi con altri 456 concorrenti.

L’uomo scopre così che il gioco è mosso e manovrato da uomini ricchi e potenti, ben nascosti da maschere misteriose e serviti da guardie con caschi ornati da triangoli, cerchi e quadrati (evidentemente, i potenti amano, anche in quelle lande, gli strumenti e i segni della geometria).

Tra i partecipanti v’è un uomo che si occupa di una società di investimenti ed è amico d’infanzia del protagonista e una profuga nordcoreana il cui intento dietro la decisione di partecipare al gioco è quello di riuscire a fare emigrare i suoi parenti dalla Corea del Nord.

Vi sono anche individui con problemi diversi che hanno un disperato bisogno di vincere quel premio in denaro: un uomo anziano, Oh Yeong, con una malattia terminale, un criminale che deve risarcire degli strozzini di origine filippina, un immigrato del Pakistan, Alì Abdul, una donna che si presenta come madre nubile, un poliziotto alla ricerca del fratello che si sarebbe presentato al gioco e altri diseredati.

Le scene di straordinaria bellezza ed efficace del serial  inducono a meditare, su un piano di lucido razionalismo, sulla crudeltà umana, che, oggi, non dovremmo ritenere più celabile in Occidente con gli edulcorati accenni e le giaculatorie rasserenanti (di molti religiosi ma anche di tanti uomini politici) sull’amore universale e sui nobili propositi di solidarietà degli esseri umani.

L’autore sembra partire dalla costatazione che l’umanità nella sua stragrande prevalenza è, al fondo, sostanzialmente crudele. Solo la reciproca conoscenza e la fiducia conseguente possono, ma non sempre, ispirare sentimenti di partecipazione e di comprensione umana, Solitamente, verso gli altri prevale la diffidenza e una sostanziale, preconcetta inimicizia. I momenti di vera solidarietà, di profondo altruismo, di generosità spinta sino all’abnegazione sono legati a fasi esistenziali di totale scoramento psichico, quando l’istinto vitale si indebolisce sino al punto di far desiderare la morte.

La regola dell’essere vivente, sia esso appartenente al genere umano, al mondo animale o persino vegetale diventa sempre di più vita mea=mors tua.

Per gli esseri umani in particolare, a sua inesorabilità e spietatezza risulta evidente, sia pure in forma inizialmente meno drammatica, sin dall’infanzia.

Nei giochi praticati dai bambini, l’eliminazione dalle gare e dalle competizioni degli avversari è il preludio alle lotte future per la sopravvivvenza, che continuano, in alcuni casi, a chiamarsi “giochi” come, per esempio, quelli in Borsa e nei Casinò.

La crudeltà dei bimbi, pure educati  e indotti da suadenti (e spesso ipocrite) parole di genitori, sacerdoti, santoni, guru, uomini politici interessati a carpire consensi ad amare il prossimo (secondo i cristiani addirittura come se stessi) e convinti dai medesimi soggetti che il fine ultimo degli esseri umani è di lottare nobilmente per cancellare la sofferenza altrui anche nelle lande più lontane del pianeta, si manifesta liberamente e si esaspera, invece, nei video-giochi delle play-station che il mondo digitale ha reso possibili.

Quegli aggeggi  consentono loro di  vedersi muniti di mitra, fucili, pistole a impulsi elettronici e  di  credere nella loro possibilità di sterminare, con spari e colpi ben mirati e assestati moltitudini di uomini in fuga e in preda al terrore

Quella prole viziata, lungi dal perseguire nobili e alti valori di solidarietà universale e altruismo illimitato, si procura godimenti proibiti vedendo sullo schermo lo spettacolo dell’ultimo respiro e del corpo sforacchiato da proiettili di tanti pretesi, anonimi e indistinti nemici.

Naturalmente, alla finzione infantile si sovrappone, con il passare degli anni, la cruda realtà degli adulti ben più vera e tragica di quella delle play-station.

La morte dei più deboli, degli individui che si lasciano sopraffare dagli eventi passa attraverso le pene di una povertà irrimediabile ed atroce.

Il protagonista che è una persona di profonda umanità, buono e generoso, sensibile e affezionato ai suoi congiunti, gentile e disponibile con tutti fa nel “palazzo dei giochi” un’amara esperienza della malvagità dei partecipanti.

Come altre produzioni libere delle piattaformi digitali, Squid gameoffre ai giovani una visione del mondo assolutamente sconvolgente rispetto ai moduli tradizionali ma di grande utilità conoscitiva. Esperienza non utilizzabile dalla maggior parte degli anziani, vittime di verità rivelate loro nell’innocenza indifesa dell’infanzia e  diffidenti delle diavolerie elettroniche. Essi non vogliono abbandonare i pregiudizi irrazionali cui sono stati abituati. Il pubblico del serial coreano sembra essere, quindi, soprattutto quello giovanile.

Con accenti commoventi, con immagini e linguaggio toccanti, il regista sa descriverci il sacrificio di una giovane ragazza, rimasta sola al mondo,  volto a salvare le vita alla profuga nord-coreana, sua compagna nel gioco a coppie.

Nonostante l’impietosa narrazione di impressionanti fatti di umana crudeltà e la tesi di una malvagità umana di portata ed estensione universali, il serial si chiude con un invito perentorio, a chi ha l’intelligenza di capire dove sta andando l’umanità, a reagire a tanto sfacelo. Se l’autore vivesse in Occidente dovrebbe tener conto del suggerimento di George Orwell, secondo cui quanto più grave è il livello di menzogna di una società, tanto più alto è il livello di ferocia contro chi afferma la verità.

Egli vive, però, nella Corea del Sud, dove la verità fa meno paura a causa della mentalità dominante nella sua popolazione. L’irreligiosità tocca la punta del 46,5% e il buddhismo, sostanzialmente ateo, riguarda il 22,8%. I cristiani (più protestanti che cattolici) sono una minoranza e nessuno si dà cura di contestare o smentire le loro verità. Essi, nella stessa storia da lui narrata, sono rappresentati come individui oggetto di facile dileggio per le loro fumisterie considerate irrazionali e ancor più per le accorate preghiere che rivolgono a personificazioni, ritenute impossibili, del vuoto cosmico o del nulla celeste.

Luigi Mazzella