Nella sofferenza della guerra, perché salvare gli animali?
Nel dicembre del 1917, periodo della Prima guerra mondiale, Rosa Luxemburg, incarcerata a Breslavia, scrisse a Sonja Liebnecht una lettera nella quale, tra le altre cose, descrive le crudeltà nei riguardi di bufali da traino alle quali aveva assistito. Gli animali trainavano un carro pieno di sacchi accatastati a tal punto che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia del carcere. Il soldato che li accompagnava li colpì con un grosso manico di frusta in modo così violento che una donna, la guardiana, indignata, gli chiese con sdegno se non avesse un po’ di compassione per gli animali. “Neanche per noi uomini c’è compassione, rispose quello con un sorriso maligno e batté ancora più forte… Gli animali, infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava… La pelle del bufalo è famosa per esser dura e resistente, ma quella era lacerata (…) Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo”.
Luxemburg pianse con quelle lacrime che il bufalo non era in grado di liberare: “Oh, mio povero bufalo, mio povero e amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi impotenti e torbidi, e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia”. Nel mentre, come lei stessa scrive, “i carcerati correvano operosi qui e là intorno al carro…; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò, fra sé una canzonaccia. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi” (Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione, Adelphi, 2007).
In questi giorni tremendi, le immagini quotidiane della guerra ci hanno messo brutalmente innanzi a una realtà inaspettata e inimmaginata. Distruzioni, lacerazioni, pianti, paura, sono entrati quotidianamente nella nostra realtà di spettatori attoniti eppur coinvolti. Tra le immagini che segneranno questa aggressione bellica ci sono quelle delle persone che scappano con i loro animali. Non episodi sporadici, ma un comportamento comune, diffuso, quello di proteggere i propri animali familiari e salvarsi insieme.
Qualcuno si è chiesto, non senza piglio da piccolo censore, come, in una situazione così tremenda, con gente che muore, città distrutte, maree di persone che scappano, si possa perder tempo a pensare anche agli animali. In realtà la domanda dovrebbe essere capovolta: come non pensare anche agli animali. Come si possono lasciare al loro destino compagni di vita con i quali sì è vissuto e ai quali ci legano sentimenti profondi e veri? Non hanno forse anche loro il diritto di salvarsi? Perché abbandonare alla sofferenza gli altri, quando noi stessi cerchiamo di sfuggirla?
“La grandiosa guerra” passa davanti agli occhi di tutti, animali umani e no. La morte e la sofferenza raggiungono chiunque, indipendentemente dalla specie.
In tali situazioni, se noi umani abbiamo la speranza del futuro, i nostri compagni di sorte animali vivono nel presente, e nel passato, non nel futuro. Noi seppur immersi nell’angoscia, nel pericolo della morte vicina, riusciamo tuttavia a rifugiarci in una speranza progettata, più che reale, ma pur sempre speranza; per gli altri animali no, la vita si risolve in quel presente di paura e terrore, senza immaginazione.
La guerra cambia tutte le prospettive e in essa si mette in gioco l’essenziale; nel volto dell’altro, a qualsiasi specie appartenga, vittime come noi di una guerra non voluta, si legge la stessa disperata necessità di salvezza, alla portata del nostro sguardo, alla portata di un gesto di complicità o ostilità, di accoglienza o di rifiuto.
Accogliere o rifiutare, è qui che si gioca la nostra essenza, e si sancisce chi veramente siamo.
Esistere, ci ricorda Kierkegaard, significa “poter scegliere; anzi, essere possibilità”. L’impossibile si ottiene realizzando di volta in volta il possibile, facendo ciò che è alla nostra portata: salvarci senza abbandonare l’altro vivente. La vittoria inizia ogni qualvolta si fa la cosa giusta e si dimostra di essere diversi dall’aggressore.
Jonathan Safran Foer, nel suo bellissimo libro “Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?” (Guanda, 2010) ricorda un episodio risalente alla Seconda guerra mondiale: sua nonna, ebrea, quasi morta di fame durante la guerra, fu capace di rifiutare della carne di maiale che l’avrebbe tenuta in vita, perché non era cibo kosher, perché “se niente importa, non c’è niente da salvare”. È qui, in questo concetto, dirompente e rivoluzionario, che risiede la risposta a chi si chiede, perché salvare anche gli animali?
Ciro Troiano