Figlio non riconosciuto: per la Cassazione vanno risarciti i danni subiti

Tutto ebbe inizio nel 1974 quando una donna partorì un bambino frutto di un rapporto non protetto. Secondo la donna, il papà venne informato della nascita ma non si assunse gli impegni genitoriali né riconobbe il bambino.

A distanza di anni, il figlio, diventato adulto, ha agito in giudizio per chiedere i danni derivanti dal mancato riconoscimento, ma in appello è stata respinta la richiesta.

La Corte di appello, infatti, riformando la prima decisione, come riporta la sentenza, “ha affermato che gli obblighi genitoriali conseguenti al concepimento si basano sulla consapevolezza della genitorialità, che non equivale ad una certezza assoluta, ma può essere desunta da una serie di indizi univoci, come il fatto indubbio di avere avuto un rapporto sessuale non protetto con la madre nel figlio nel periodo del concepimento, e che la domanda risarcitoria del danno conseguente alla violazione dei diritti del bambino per il mancato assolvimento degli obblighi genitoriali presuppone la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo della colpa e che le risultanze istruttorie non avevano fornito la necessaria chiarezza in merito al momento della conoscenza del (omissis) circa la sua paternità verso (omissis)”.

La circostanza che il padre fosse stato informato fin dalla nascita della sua paternità si basava sulla sola testimonianza della madre, dichiarazione che, secondo i giudici di secondo grado, doveva essere “valutata con prudenza, in quanto lei ha oggettivamente un interesse di fatto all’esito del giudizio”; inoltre, la deposizione della madre non era confermata da nessun tipo di prova e non vi erano elementi sufficienti a verificare che l’uomo fosse consapevole della propria paternità prima della richieste di riconoscimento.

Di diverso avviso gli Ermellini, secondo i quali “in tema di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, nell’ipotesi di maggior età di colui che richiede l’accertamento non può configurarsi un interesse principale ad agire della madre naturale non essendo in tale evenienza ravvisabile un obbligo legale di assistenza o mantenimento nei confronti del figlio”. In sintesi, non vi era nessun interesse di fatto da parte della madre che giustificherebbe prudenza nella valutazione delle sue dichiarazioni.

In merito al risarcimento dei danni, secondo la Corte di appello non v’era prova del danno patito “sotto l’aspetto affettivo, psicologico e sociale, ed infatti, pur avendo provato di essere cresciuto in povertà, questi (il figlio, ndr) non aveva dimostrato che avrebbe potuto beneficiare di condizioni di vita migliori se il padre lo avesse riconosciuto (non aveva dimostrato ‘quali prospettive egli avesse riguardo al suo futuro, quali ambizioni restassero insoddisfatte e quali concrete chances egli si fosse perso’), tanto più a fronte delle non floride condizioni economiche” del padre.

La Cassazione, invece, con decisione presa il 27 settembre 2022 ha dato una diversa valutazione. “Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte – si legge nella sentenza, – la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole non trova sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, potendo integrare gli estremi dell’illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti; l’illecito intrafamiliare può, infatti, produrre anche un danno non patrimoniale lato sensu psicologico/esistenziale, ovvero che investe direttamente la progressiva formazione della personalità del danneggiato, condizionando così pure lo sviluppo delle sue capacità di comprensione e di autodifesa. Questo illecito, pertanto – continua la sentenza -, può dar luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento del danno non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 cod. civ. esercitabile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità qualora l’inadempimento del genitore abbia causato un complessivo disagio materiale e morale per il figlio qualora da tale disagio siano derivate una serie di ulteriori conseguenze pregiudizievoli, di carattere patrimoniale oltre che non patrimoniale, tra cui la impossibilità di affermarsi in maniera più soddisfacente socialmente e di svolgere degli studi, che possono aver precluso la possibilità di realizzazione professionale,  con rilievo anche economico.

Va ancora osservato – conclude la Suprema Corte – che il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di un figlio naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli artt. 2 e 30 Cost. – oltre che nelle norme di natura internazionale recepite dal nostro ordinamento – un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole”.

Ciro Troiano