La mannaia della Cassazione sulla detenzione di cani in pessime condizioni
La Suprema Corte è intervenuta nuovamente sulla detenzione di cani chiusi in ambienti non idonei a garantire il loro benessere (Cass. III Sez. Pen. sentenza n. 537/2023). In merito ad un ricorso presentato da un individuo condannato dal Tribunale di Catania per violazione all’articolo 727 c.p.(detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze), la Cassazione ha affermato che tale reato “non postula la necessaria ricorrenza di situazioni, quali la malnutrizione e il pessimo stato di salute degli animali, indispensabili per poterne qualificare la detenzione come incompatibile con la loro natura, ma al proposito rilevano tutte quelle condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione compresi comportamenti colposi di abbandono e incuria”.
Nel corso del dibattimento di primo grado era stato accertato che un cucciolo di cane era stato tenuto in un locale chiuso, scarsamente illuminato, in uno spazio angusto di un garage, sbarrato da rete metallica in mezzo ad oggetti ingombranti, con conseguente scarsa possibilità di movimento, in mezzo alle proprie deiezioni e senz’acqua, visto che la ciotola era rovesciata. Sulla base di tale ricostruzione, il giudice di merito di Catania ha ritenuto che sussistessero gli elementi costitutivi del reato, stante la detenzione dell’animale in condizioni incompatibili con la sua natura e produttive di gravi sofferenze.
Un’altra sentenza (Cass. III Sez. Pen. sentenza n. 39844/2022) ha riguardato la detenzione in un’abitazione di Milano di sette cani chiusi in luogo angusto, privo di luce e in precarie condizioni igieniche. In primo grado il Tribunale ha ritenuto integrato il contestato reato di cui all’art. 727 c.p., rilevando che le condizioni di sporcizia dell’immobile e la totale assenza di igiene dell’abitazione, la mancanza di luce dell’ambiente, la noncuranza dell’imputato per le condizioni igieniche dei cani, “erano circostanze tutte che comprovavano una detenzione in condizioni incompatibili con la natura degli animali e produttive di gravi sofferenze”. Gli Ermellini hanno evidenziato che “assumono rilievo non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psicofisica dell’animale procurandogli dolore e afflizione”. Il presupposto giuridico da cui partire, ricordano i giudici di legittimità, è mutato: gli animali “sono considerati non più fruitori di una tutela indiretta o riflessa, nella misura in cui il loro maltrattamento avesse offeso il comune sentimento di pietà, ma godono di una tutela diretta orientata a ritenerli come essere viventi. È stato, quindi, ritenuto integrato il reato in esame anche in situazioni quali la privazione di cibo, acqua e luce, o le precarie condizioni di salute, di igiene e di nutrizione, nonché dalla detezione degli animali con modalità tali da arrecare loro gravi sofferenze; ed è stato anche precisato che non è necessaria la volontà del soggetto agente di infierire sull’animale né che quest’ultimo riporti una lesione all’integrità fisica, potendo la sofferenza consistere in soli patimenti”.
Ciro Troiano