Né cose né padroni, ma solo rispetto

Il maltrattamento di animali è un reato comune che può essere integrato da chiunque, non solo e non necessariamente dal proprietario dell’animale, e che tipizza condotte a forma libera. A nulla vale che l’animale non appartenga giuridicamente all’imputato.

Così la Corte di Cassazione (Sez. 3 Num. 34087 Anno 2021) confermando la condanna a carico di un uomo di Brescia per maltrattamento di animali.

L’uomo era accusato di «aver sottoposto per crudeltà e, comunque, senza necessità una femmina di Bull Terrier a comportamenti non compatibili con le caratteristiche etologiche dell’animale, derivanti dall’aver custodito l’animale, per tempi prolungati, in un ambiente angusto, impedendo al medesimo di potersi muovere o correre liberamente, in quanto legato ad una catena di soli cm 120 (condotta protrattasi a tal punto da cagionare, altresì, lesioni consistite in piaghe infette agli arti posteriori, verosimilmente causate dal decubito dell’animale sulla pavimentazione, nonché dermatiti di varia natura); nell’aver somministrato allo stesso un’alimentazione insufficiente, così cagionandogli uno stato di grave denutrizione; nell’averlo preso a bastonate; nell’aver fornito insufficienti cure alle ferite lacero contuse riscontrate sul muso, nella regione frontale ed ai padiglioni auricolari dell’animale, altresì lasciato per più ore sotto il sole e privo di acqua».

Il ricorrente aveva contestato la sentenza confermata dalla Corte di Appello di Brescia laddove riconosceva la sua responsabilità, poiché lui non era il proprietario del cane come comprovato dalla deposizione di una teste, la quale aveva precisato nel dibattimento di primo grado che il cane era stato acquistato dalla compagna dell’imputato, aggiungendo che la stessa «non si occupava mai» dell’animale. Dunque, secondo il ricorrente, non poteva ravvisarsi a suo carico alcun obbligo giuridico di impedire le lesioni subite dall’animale, con particolare riferimento alla mancata offerta al cane di una sistemazione idonea al riposo ed alla mancata cura delle ferite, né il dovere di garantire il benessere psicofisico dell’animale.

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso nel suo complesso inammissibile in quanto manifestamente infondato, e ha precisato: «Va premesso che il delitto in esame, introdotto dalla L. 20 luglio 2004, n. 189, art. 1, comma 1, prevede testualmente la condotta di chi “per crudeltà o senza necessità cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche”. Si tratta di una fattispecie avente natura di reato comune, che può essere, pertanto, integrata da chiunque, non solo e non necessariamente dal proprietario, e che tipizza condotte a forma libera (…) nella specie, risulta pacificamente che l’animale si trovava nella sfera di disponibilità dell’imputato, risultano contestate ed accertate condotte sicuramente attive e che, pertanto, non postulano il riferimento all’esistenza di un obbligo giuridico di impedimento dell’evento che sostanzia i reati omissivi impropri; obbligo che il ricorrente sostiene non essergli attribuibile in quanto non proprietario dell’animale de quo, acquistato dalla propria compagna».

In sintesi, chi ha un animale, a qualsiasi titolo, ha l’obbligo di assicurargli idonee condizioni di detenzione, di ricovero, di cura, di socializzazione e la somministrazione di un’alimentazione adeguata e sana.

Occorre annientare il pregiudizio che considera un animale una cosa, un oggetto, un mero strumento per soddisfare i nostri sfizi,  per affermare la cultura del rispetto, che si basa sulla piena consapevolezza che l’animale è un essere senziente capace di provare dolore, ma anche di rispondere positivamente alle attenzioni amorevoli dell’uomo, di anelare a vivere armoniosamente nel proprio ambiente o nel contesto che lo circonda e quindi portatore di interessi vitali quali il diritto a una vita sana, serena e a non soffrire.

Ciro Troiano