Se Sanremo diventa il ring della politica
Come ormai da molti anni, Sanremo delude. Non è snobismo, ma disgusto preventivo verso la trasformazione di quella che per anni è stata una straordinaria manifestazione canora, popolare nel senso migliore del termine, in una kermesse senza né capo né coda sempre più specchio del declino italico, e non solo musicalmente parlando. Le cronache di questi giorni confermano uno stato pietoso: dal cretino che prende a calci i fiori del palcoscenico all’idiota che straccia la foto di un ministro, dal presunto comico in mutande che non fa ridere nessuno alla milionaria (in soldi e followers) ebete che legge la letterina da quinta elementare. Robaccia.
Solo che questa volta si è andati oltre, tanto che da giorni il dibattito politico ruota intorno a Sanremo. Da un lato è montata una querelle, durata settimane, sulla partecipazione del presidente ucraino Zelensky, presenza fisica, videomessaggio, lettera, che accostata alla drammaticità della guerra fa vergognare. Dall’altro lato, si è voluto usare il festival come luogo per metter su un corso di educazione civica, coinvolgendo anche il Capo dello Stato in un esperimento di “pedagogia repubblicana” a buon mercato collocato in un contesto non solo inadeguato in sè, ma anche carico di cattivo gusto.
Così Sanremo è diventato terreno di confronto politico, con una sinistra che ha sperato che il politicamente corretto riversato a fiumi sul palco dell’Ariston fosse funzionale a farla uscire dal suo stato ormai catatonico e la destra che, forte delle aspettative del voto in Lombardia e Lazio, estrae dal suo repertorio classico un sonoro “chissenefrega” di Amadeus e dei suoi ospiti.
Ma può un paese che vive un momento storico complesso e che si trascina dietro problemi atavici irrisolti, ridursi a confinare le sue dinamiche politiche dentro un recinto di questo genere? Non è neanche più populismo recitato a fini elettorali, è drammatico decadimento culturale, oltre ogni livello minimo di decenza. E dentro questo contesto rischia di farsi risucchiare anche Giorgia Meloni.
La quale, dopo essere riuscita a varcare la soglia dei primi 100 giorni a palazzo Chigi senza infamia, evitando quanto era stato paventato da quel mondo mediatico che non ha tollerato la vittoria della destra alle elezioni; ma anche senza particolare lode, visto che il suo governo ha vissuto di quotidianità, senza riuscire a dare, probabilmente perchè ne è privo, il senso di una strategia di lungo termine.
Addirittura ora che il risultato del voto regionale è, specie in Lombardia, consacrato da un distacco abissale tra Fratelli d’Italia e i parenti di Lega e Forza Italia, il sospetto è che dal voto il governo esca paradossalmente indebolito proprio quando nella sua agenda farà capolino un tema divisivo come quello delle nomine dei vertici di gran parte delle aziende partecipate dallo Stato. Così il suo proverbiale decisionismo si è appannato di fronte al caso Nordio, soprattutto perché è apparso evidente che dietro le polemiche politico-mediatiche sollevate intorno alla vicenda Cospito c’era il tentativo della minoranza che comanda nella magistratura di minare sul nascere la riforma della giustizia che Nordio ha in animo di realizzare. Si è finito, così, per trasformare lo sparuto drappello degli anarchici in chissà quale pericolo per lo Stato, e quindi in nemico dei guardiani della Nazione.
Da sempre l’arte del governo è farsi concavi e convessi, saper incassare per poi restituire anche con gli interessi, ma solo al momento opportuno. Impararlo è indispensabile.
In questi giorni è stato ricordato l’anniversario dalla morte di Pinuccio Tatarella, che più di tutti aveva coltivato l’ambizione di trasformare la destra post fascista in forza di governo pienamente legittimata, aprendo la strada poi efficacemente percorsa da Gianfranco Fini. Forse sarebbe utile se Meloni si domandasse cosa farebbe, o cosa le consiglierebbe di fare, oggi il compianto Tatarella. Non tanto nel merito delle decisioni da prendere, ma sul piano del metodo. Ne ricaverebbe l’insegnamento della laboriosa tessitura, che è l’esatto contrario della rovinosa disintegrazione. Vedremo già domani, a risultati delle regionali appena sfornati, se nel weekend si sarà riletta Tatarella.
Giuseppe Romito