Perché la Storia non è più “maestra di vita”?
Il “Corriere della sera” nel supplemento “La lettura” del 5.3.2023 ha organizzato un “dibattito delle idee” sulla “crisi della Storia” e ha centrato il quesito sulle ragioni che avrebbero rimosso dal dibattito politico e culturale l’importanza della conoscenza storica.
Dalla conversazione tra Fulvio Cammarano, Giorgio Caravale, Maurizio Ferrera è emerso che ricordare il passato per non ripeterne gli errori sarebbe oggi diventato del tutto un “fuor d’opera”.
In conseguenza, anche il raffrontare gli eventi odierni del nostro Paese con quelli degli anni Venti sarebbe del tutto inutile.
Secondo quegli intellettuali, a togliere spazio alla Storia sarebbero stati la crisi dello Stato-Nazione e l’avvento di una politica appiattita sul presente.
Non mi sembra che la tesi condivisa da quegli studiosi apra dinnanzi agli occhi del lettore abissi in cui penetrare per approfondire gli aspetti del problema. Detto in altre parole, le molte argomentazini spese dai partecipanti nel dibattito sembrano restare piuttosto alla superficie del tema affrontato.
Forse sarebbe stato importante distinguere preliminarmente gli scrittori che convincono per la verità storica che assumono di rivelare, percorrendo un sentiero di rigorosa razionalià e quelli che si limitano a interpretare e a raccontare la realtà secondo i loro abituali “paraocchi” del fideismo religioso o del loro fanatismo politico.
La verità è, per esempio, che “Savoia Boia” di Lorenzo del Boca racconta una storia del nostro cosiddetto “Risorgimento” ben diversa da quella che ci hanno propinato sui banchi di scuola insegnanti dominati dai canoni idealistici del pensiero prevalente in Italia.
Se la razionalità non è libera e non si usa la logica la Storia diventa solo un insieme di “favolette” e lungi dall’essere “maestra” può rappresentare l’antidoto della verità, pericolosamente fuorviante.
Di ciò sembra rendersi perfettamente conto uno dei più grandi registi e sceneggiatori messicani, resi celebri da Hollywood, Alejandro G.Inarritu che ha reso evidente il suo parere con immagini e parole agghiaccianti nel suo ultimo film “Bardo”.
Per lui la Storia, come recita il sottotitolo del film (oggi nelle sale e su Netflix), sarebbe soltanto “la cronaca falsa di alcune verità” che sono, più che spesso, raccontate all’incontrario del vero. Per il grande Autore messicano, soprattutto le cosiddette epopee popolari sono colossali menzogne; la nascita “glorificata” di una Nazione è spesso il risultato di squallidi mercimoni, di scambi vergognosi coperti da strati robusti di sangue di giovani innocenti. Ciò vale per il suo Messico, per le carneficine, i massacri, le stragi, i genocidi di Cortes, ma in formato ridotto potrebbe valere, in casa nostra, per le rodomontate garibaldine, per i commerci sotterranei e loschi con Francesi ed Inglesi di una Corte di buzzurri provinciali e montanari, l’une e gli altri coperte ugualmente da carneficine di tanti innocenti.
Le idee di Inarritu non sono accettate da un pubblico che, come quello Occidentale, ha abbandonato dal tempo del declino di Roma, i sentieri della razionalità e, perdendosi in false credenze religiose e politiche, ha creato miti fasulli per nascondere scomode verità. Non mi ha sorpreso che la critica militante abbia tuonato contro di esse.
“E’ una miriade di eventi senza senso, un accumulo di riflessioni e di ricordi sfuocati”.
In realtà il film urta la “sensibilità” (la si chiama così per nobilitarla) di chi ha sempre sentito circolare nel suo ambiente idee contrarie a quelle espresse dal regista messicano e da tutti quelli che hanno ceduto il cervello all’ammasso riponendolo nelle sacrestie delle parrocchie e/o nelle sezioni dei partiti ideologizzati.
Luigi Mazzella