La “fattibilità” del salario minimo in Italia
Cinquantamila euro di sanzioni, per una serie di irregolarità in una attività commerciale alimentare, sono una cifra da capogiro, che costringono l’attività probabilmente alla chiusura. Se poi tra le violazioni ci sta pure lo sfruttamento del lavoro minorile, ed il conseguenziale coinvolgimento dei genitori del minore impiegato, è ancora più rimarcato il valore delle sanzioni inferte all’esercente. Ma questo caso induce ad una serie di riflessioni sulle reali condizioni della sommergibilità lavorativa in Italia e più in particolare necessita una riflessione “in voga” in questo periodo. L’introduzione del salario minimo nel nostro Paese.
Sono anni che periodicamente se ne discute senza mai giungere a una decisione. Da una parte chi sostiene che l’Italia debba raggiungere gli altri Paesi europei sul fronte del salario minimo, dall’altra chi ritiene che nel nostro Paese esista già un sistema, quello costruito sui contratti collettivi nazionali, sufficiente a garantire ai lavoratori un salario “dignitoso”.
La diminuzione dei salari registrata negli ultimi anni nel nostro Paese e i problemi di accesso al lavoro per alcune fasce della popolazione, come giovani e donne, hanno portato diversi politici ed economisti a sostenere la necessità di cambiare o rafforzare il sistema contrattuale attuale.
Ma cosa significa avere un salario minimo? All’Italia serve davvero e, soprattutto, sarebbe possibile applicarlo?
Il salario minimo legale consiste in una soglia minima decisa su base oraria o mensile che deve essere garantita ai lavoratori. In Italia questo sistema non è presente, perché a tutelare i salari dei lavoratori ci sono i contratti collettivi nazionali che vengono concordati e firmati tra i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro e aggiornati ogni tre anni.
L’articolo 36 della Costituzione prevede che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Non importa, quindi, se il datore di lavoro applica o meno la contrattazione collettiva, il giudice, nel caso di un contenzioso, potrà prendere come punto di riferimento il salario minimo previsto dai contratti collettivi per verificare se la retribuzione è sufficiente.
Esiste una direttiva europea non vincolante che stabilisce che i salari minimi devono essere fissati a un livello adeguato e che i lavoratori devono aver accesso alla tutela garantita dal salario minimo, sotto forma o di salari determinati da contratti collettivi o di un salario minimo legale.
Questo significa che l’Ue impone all’Italia di introdurre il salario minimo? No, la direttiva non impone l’obbligo di introdurre il salario minimo legale agli Stati membri, tra cui l’Italia, che non lo possiedono, né di rendere i contratti collettivi universalmente applicabili. Al contrario, da un lato promuove la contrattazione collettiva, dall’altro impone ai 21 Stati Ue che già prevedono un salario minimo legale il rispetto di una serie di misure per garantire l’adeguatezza di quest’ultimo.
La direttiva tutela sia il salario minimo fornito dalla contrattazione collettiva sia quella assicurata da salari minimi fissati per legge. E poi si rivolge a quei Paesi che prevedono già il salario minimo e indica una serie di misure e criteri per garantire, anche sul lungo termine, retribuzioni adeguate e allineate al potere di acquisto, al tasso di crescita dei salari e all’andamento della produttività del lavoro, anche in considerazione di valori di riferimento comunemente utilizzati a livello internazionale.
Chi sostiene il salario minimo pensa che sia una misura in grado di garantire una retribuzione dignitosa senza ingiustificate differenze tra settori o posizioni.
Tra i più contrari, però, ci sono imprenditori e sindacati. I primi ritengono che con il salario minimo aumenterà il costo del lavoro (cioè, le spese complessive sostenute da un’azienda per i suoi lavoratori, che comprende salari, imposte e altre spese) al punto tale da mettere le loro aziende fuori mercato rispetto quelle estere. Con un salario minimo di 9 euro lordi, secondo uno studio citato da Il Sole 24 ore di giugno 2019, il costo medio del lavoro aumenterebbe del 20%. I sindacati, invece, temono che possa comportare una riduzione del loro coinvolgimento nelle contrattazioni tra lavoratori e aziende.
Bisogna dire poi che alcune categorie di lavoratori non sono coperte dal contratto collettivo, come il lavoro autonomo (con alcune eccezioni) e irregolare.
Da tenere poi in considerazione il differente costo della vita presente nelle varie regioni e città, ma anche tra nord e sud. Sarebbe corretto garantire lo stesso salario minimo a Milano e a Napoli?
Non è credibile che introdurre il salario minimo legale in Italia sia una priorità. Paradossalmente porrebbe un doppio binario: la contrattazione nazionale e il canale legale. Il salario minimo, come sottolineato da diversi esperti, potrebbe aumentare il livello di disoccupazione e incentivare il lavoro in nero.
Ridurre il cuneo fiscale potrebbe essere una soluzione?
Si. Prima ancora di introdurre il salario minimo, sarebbe necessario intervenire su altre leve, che non ricadano solo sul datore di lavoro. Appunto Il cuneo fiscale, cioè, la differenza tra il costo per il datore di lavoro e la retribuzione netta percepita dal dipendente, abbassandolo, potrebbe essere un intervento opportuno. Aumentare la retribuzione è possibile fino a un certo punto, oltre il quale non è sostenibile. Le aziende soffrono l’innalzamento del costo del lavoro, e ciò rischierebbe di escluderle dal mercato e, in ultima istanza, anche determinare ricadute sui livelli occupazionali.
Ritornando alle ragioni della sommergibilità lavorativa. Dopo questo approfondito discorso sull’inattuabilità del tanto “dignitoso” salario minimo e sulla proposta di abbassamento del cuneo fiscale, avete riflettuto abbastanza?
Giuseppe Romito