Perché dire arbitra rasenta il tabù

L’essere umano è tendenzialmente proteso verso ciò che già conosce. Per risparmiare energie. O forse solo per paura. Il cambiamento rende insicuri. Ma quando si ritrova il terreno sotto i piedi, ci si accorge che era impossibile restare fermi dove si era.

Ecco. È quello che sta succedendo alla lingua italiana. Da qualche anno sono frequenti i dibattiti sul linguaggio inclusivo. Le parole costruiscono la realtà. Costruiscono le identità. Ed allora la parità di genere passa anche attraverso esse.

È una questione di abitudini. E di cultura.  Le ambizioni di una persona possono essere legate al proprio sesso biologico?

Hai mai trovato un kit di make-up sugli scaffali dei giochi da bambino? E un pallone da calcio su quelli dedicati alle bambine? È questo il punto.

E la conseguenza è che si trova ridicolo, o addirittura svilente, dire ‘arbitra’.

Per dirla come la sociolinguista Vera Gheno – “per giustificare l’uso del maschile generalizzato ci si rifà alla storia; perché si è sempre fatto così…ma i mestieri non sono neutri, nulla è neutro: in italiano è tutto o maschile o femminile…”.

Partire da questa consapevolezza. Ridisegnare i parametri. Quelli della parità di genere. Nelle buste paga e nelle parole.

Perché ‘nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma’. Anche le lingue e i linguaggi.

Lucia Ricchitelli