Conservare, spesso, vuol dire progredire
Siete mai entrati nell’androne del Palazzo di Città di Bari? Se non l’avete fatto, in questi ultimi giorni di vacanza, provate ad entrarci, con occhio turistico, rimarrete affascinati da quattro sculture in pietra, posti ai lati dell’ingresso.
Sapete cosa sono? I resti del più grande scempio architettonico che si sia potuto compiere in città. Perpetrato la notte di ferragosto del 1982. Il crollo del Palazzo della Gazzetta. Le statue di cui sopra sono i quattro splendidi telamoni inginocchiati che, inglobati nei vani delle finestre a pianterreno, per decenni avevano “sorretto” l’antico stabile. Ad oggi sono l’unica testimonianza rimasta del capolavoro di Dioguardi, ma anch’esse hanno rischiato di essere dimenticate, abbandonate all’interno delle Officine Romanazzi. Ultimo proprietario del palazzo Liberty di Dioguardi sorto in Piazza Roma, (oggi Piazza Moro) nel 1927
L’abbattimento del “Palazzo della Gazzetta” che dominava un tempo con il suo maestoso prospetto liberty la piazza della Stazione di Bari, è unanimemente considerato il più grande delitto architettonico compiuto nel capoluogo pugliese. Ma i motivi della sua rapida scomparsa, continuano a lasciare a distanza di 41 anni dubbi e incertezze. Come andò veramente quel giorno? Chi decise per la distruzione del capolavoro di Dioguardi? E perché le istituzioni non fecero nulla per intervenire?
A volere la sua realizzazione fu la Gazzetta di Puglia (erede del Corriere delle Puglie di Martino Cassano), fondata nel 1922 da Raffaele Gorjux assieme ad altri imprenditori e intellettuali e finanziata dal Banco di Puglia. Un giornale che, rappresentando l’unico quotidiano regionale, divenne una colonna portante dell’editoria meridionale.
Questo successo convinse i proprietari a dotarsi di una prestigiosa sede nel cuore del murattiano, nei pressi di quella Stazione Centrale. Il nome del giornale, per l’occasione cambiò in Gazzetta del Mezzogiorno. Dopo quasi 50 anni, la proprietà decise, nel 1972, di trasferirsi nella più moderna sede di via Scipione l’Africano, lasciando in piazza Roma soltanto alcuni uffici di rappresentanza. Fu l’inizio della fine per l’opera di Dioguardi, che si ritrovò praticamente disabitata. A Seguito anche di dissesti finanziari, si permise l’ingresso dell’imprenditore Romanazzi, titolare delle omonime officine, che avevano sede accanto alla Fibronit. Il quale ritenendo troppo alti i costi di gestione e mantenimento del palazzo, ormai abbandonato, decise di cederlo ad un gruppo immobiliare milanese, con l‘intento di demolirlo. E così è successo. Nel frattempo Bari è stata pure decretata la città più liberty d’Italia, nel 2019.
Adesso pare sia arrivato il momento di abbattere l’altra sede storica della Gazzetta del Mezzogiorno, quella di via Scipione l’Africano. Al posto dell’edificio, i cui lavori di abbattimento dovrebbero iniziare il prossimo aprile, dovrebbe sorgere un complesso residenziale. Una città che abbatte la sua storia è una città senza memoria, per chi la vive e per chi la visita. In nome del Progresso e della finta immagine di bellezza che si vuole dare alla città, si favorisce una cricca di potere utile soprattutto ad un ritorno (elettorale?) d’immagine per qualcuno che gestisce il potere stesso. Insomma una vera e propria casta del cemento selvaggio.
Provando ad allargare la vista, più in generale, si può imputare all’accrescimento del cemento selvaggio, una delle ragioni del riscaldamento globale? Di sicuro porta il suo peso, insieme alla Xylella, in funzione della desertificazione, in prospettiva futura. Una problematica da non sottovalutare per la nostra regione.
La cementificazione e l’abbandono delle campagne sarebbero, secondo una denuncia di Coldiretti Puglia, alla base della riduzione della superficie agricola utilizzabile nella regione.
In un anno pare sia andato perduto l’8,2% di terreno agricolo in Puglia, seguendo un modello di sviluppo sbagliato che purtroppo non si è ancora arrestato e mette a rischio l’ambiente, la sicurezza dei cittadini e la sovranità alimentare in un momento difficile. Solo nel 2021 sono andati persi altri 500 ettari di campagne, sottolinea la stessa associazione di categoria, per colpa della cementificazione e dell’abbandono che ha ridotto la superficie agricola utilizzabile.
Su un territorio meno ricco e più fragile per il consumo di suolo, inoltre, si abbattono i cambiamenti climatici con le precipitazioni sempre più intense e frequenti, con vere e proprie bombe d’acqua che il terreno non riesce ad assorbire e alla siccità che ogni anno aggrava il rischio desertificazione.
Sono 230 i comuni pugliesi a rischio frane e alluvioni, a detta di Coldiretti, e a pagarne i costi oltre ai cittadini residenti soprattutto nelle aree rurali.
Inoltre il consumo di suolo agricolo a causa degli impianti di fotovoltaico a terra, tra l’altro, minaccia il futuro alle nuove generazioni di agricoltori, con la multifunzionalità energetica che va sviluppata come attività integrata alla coltivazione e all’allevamento, a nostro avviso, sarebbe da incentivare lo sviluppo di isole energetiche in acque territoriali, come già più volte abbiamo sottolineato.
Occorre pure accelerare sull’approvazione della legge sul consumo di suolo attesa da quasi un decennio e che potrebbe dotare l’Italia di uno strumento all’avanguardia per la protezione del suo territorio, ma sono anche necessari interventi di manutenzione, risparmio, recupero e riciclaggio delle acque con le opere infrastrutturali, potenziando la rete di invasi sui territori, creando bacini per l’acqua piovana in modo da raccoglierla quando è troppa e usarla quando serve in modo da gestire gli effetti dei cambiamenti climatici e aumentare la capacità produttiva.
E’ per questo che ribadiamo con forza il nostro impegno alla realizzazione di meno cemento ed alla salvaguardia del suolo agricolo. Perché conservare, spesso, vuol dire progredire.
Giuseppe Romito