Che colpa ha la gatta, se la massaia la maltratta?
Ancora una volta raccontiamo una storia di crimini a danno di gatti. Recentemente ci siamo occupati del lancio di un gattino ad opera di un ragazzo; precedentemente avevamo trattato il caso della detenzione di tre gatti in condizioni incompatibili con la loro natura; e prima ancora l’uccisione di un gatto da parte di un mafioso. Questa volta si tratta di un caso di uccisione a colpi di bastone.
Una donna del Catanzarese ha fatto ricorso in Cassazione per l’annullamento della sentenza della Corte di appello di Catanzaro che aveva confermato la condanna alla pena di tre mesi di reclusione irrogata dal Tribunale di Cosenza per il reato di uccisione di animali cui all’art. 544-bis c.p., per aver cagionato, per crudeltà e senza necessità, la morte del gatto di proprietà di una vicina, colpendolo ripetutamente con un bastone.
La ricorrente lamentava l’erronea applicazione della norma e, al riguardo, osservava «di aver dovuto uccidere il gatto che, introducendosi nella sua proprietà, aveva provocato la reazione del proprio cane pit bull che si era scagliato contro di lui. Aveva, dunque, “aggredito” il gatto per farlo uscire dalla proprietà. Il che, afferma, esclude il requisito della crudeltà e, certamente, della assenza di necessità della condotta. Si è in presenza, eventualmente, di un eccesso colposo, tuttavia penalmente irrilevante non essendo il reato punito a titolo di colpa. L’azione, prosegue, è stata posta in essere non per un sentimento contrario agli animali ma per allontanare il gatto dalla sua proprietà».
Gli Ermellini hanno dichiarato il ricorso inammissibile perché generico e manifestamente infondato, osservando, tra gli altri punti, che nel caso di specie, dalla lettura della sentenza impugnata, risulta che l’imputata aveva bastonato il gatto, effettivamente introdottosi nella sua proprietà, violentemente e ripetutamente, inseguendolo persino sulla pianta dove aveva cercato rifugio, fino a cagionarne la morte. Da questo fatto, scrivono i giudici di legittimità, «la Corte di appello ne ha tratto argomento per disattendere la tesi difensiva secondo cui l’intenzione dell’imputata era quella di dividere il gatto dal proprio cane di grossa taglia, e per ribadire, invece, che l’azione era stata posta in essere nella piena consapevolezza che dalla stessa potesse derivare la morte dell’animale, come si desume dalla reiterazione dei colpi inferti e dal fatto che la condotta era proseguita nonostante il gatto si fosse allontanato dal cane trovando rifugio su una pianta».
Nel motivare la decisione, il Collegio si sofferma anche sulla giurisprudenza relativa al reato di uccisione di animali. «La nozione di “necessità” che esclude la configurabilità del reato di uccisione di animali di cui all’art. 544-bis c.p. comprende non soltanto lo stato di necessità previsto dall’art. 54 c.p., ma anche ogni altra situazione che induca all’uccisione dell’animale per evitare un pericolo imminente o per impedire l’aggravamento di un danno alla persona propria o altrui o ai propri beni, quando tale danno l’agente ritenga altrimenti inevitabile (…) è stato inoltre precisato che la crudeltà si identifica con l’inflizione all’animale di gravi sofferenze per mera brutalità, mentre la necessità si riferisce ad ogni situazione che induca all’uccisione dell’animale per evitare un pericolo imminente o per impedire l’aggravamento di un danno a sé o ad altri o ai propri beni, quando tale danno l’agente ritenga non altrimenti evitabile». Crudeltà e assenza di necessità, continuano i giudici, costituiscono requisiti strutturali della fattispecie di reato che riguardano, alternativamente, l’elemento soggettivo e quello oggettivo e tali requisiti «non devono necessariamente concorrere, ben potendo l’evento morte essere cagionato senza necessità ma senza crudeltà quanto con crudeltà ma con necessità (in quest’ultimo caso, la rilevanza penale del fatto deriva dall’inflizione all’animale di inutili e gratuite sofferenze)».
Nel caso di specie, con motivazione non oggetto di censure, la Corte di appello ha ritenuto la sussistenza di entrambi i requisiti, avendo escluso la necessità dell’azione (essendosi il gatto rifugiato su una pianta e non costituendo pericolo alcuno né per l’agente, né per i suoi beni) e avendo ritenuto la concorrente crudeltà (in considerazione della reiterazione dei colpi).
Anche la tesi della difesa secondo la quale la donna doveva essere tutt’al più condannata per il reato di uccisione di animali altrui, di cui all’art. 638 c.p. che prevede una pena meno severa, è stata confutata in quanto la sussistenza del reato di “uccisione di animali” (art. 544-bis c.p.) esclude la concorrente applicazione del reato di “uccisione di animali altrui” (art. 638 c.p.). «Ne deriva che il delitto di uccisione di animali di cui all’art. 544-bis c.p. assorbe anche il disvalore eventualmente derivante dall’essere l’animale di proprietà altrui; il proprietario, pertanto, siccome titolare di una situazione giuridica soggettiva attiva riconosciuta e tutelata dall’ordinamento e lesa dall’azione del reo, è certamente titolato a costituirsi parte civile per chiedere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti da reato. Non vi è pertanto alcuna contraddizione nel fatto che la proprietaria del gatto si sia costituita parte civile ed abbia ottenuto il risarcimento dei danni».
Parafrasando un proverbio, possiamo concludere: “che colpa ha la gatta, se la massaia la maltratta?”.
Ciro Troiano